ROMEO E GIULIETTA
FACTORY, TERRAMMARE TEATRO, TEATRI ABITATI
di William Shakespeare
adattamento e traduzione di Francesco Niccolini
con Lea Barletti, Dario Cadei, Ippolito Chiarello, Angela De Gaetano, Filippo Paolasini, Luca Pastore, Fabio Tinella.
scenografie di Roberta Dori Puddu
realizzazione scene L.C.D.C. luminarie Cesario De Cagna
costumi di Lapi Lou – Luci di Davide Arsenio
assistente alla regia Paola Leone
regia di Tonio De NittoCoproduzione Factory, Terrammare Teatro, Teatri Abitati
Informazioni
Romeo e Giulietta è chiedersi quanto i genitori amino veramente i figli, quanto possano capirli, quanto invece non imparino a farlo troppo tardi.
Romeo e Giulietta è un gruppo di famiglia sbiadito e accartocciato dal tempo, una foto che ritrova vigore e carne per poi consumarsi e scolorirsi di nuovo.
Romeo e Giulietta sono le morti innocenti, i desideri irrealizzati e la capacità di sognare che non può esserci tolta.Romeo e Giulietta è un meccanismo perfetto, un ingranaggio linguistico e scenico che va avanti nonostante essi stessi, dal quale però ad un certo punto può succedere di voler scendere e in qualche modo di farlo veramente, costi quel che costi.
Romeo e Giulietta, sono due adolescenti di una comitiva che si cancella per sempre nel tempo di un paio di giorni.
Romeo e Giulietta sono il vuoto lasciato, il segno della tragedia che ha sconvolto una comunità e che non sarà mai rimosso.
Romeo e Giulietta sono i sette interpreti impegnati con tripli salti mortali in doppi ruoli diametralmente opposti l’uno all’altro.
Lo spettacolo di Factory unisce attori provenienti da quattro compagnie leccesi (Nasca Teatri di terra, Principio Attivo Teatro, Induma teatro e Factory) ed è sostenuto e coprodotto da Terrammare teatro all’interno del progetto Teatri Abitati una rete del contemporaneo.
Tonio de Nitto
Romeo e Giulietta, perché scriverne un’altra versione
Tutto ebbe inizio vent’anni fa. Andai a vedere le prove di uno spettacolo di Teatro Settimo, La storia di Romeo e Giulietta. Fino ad allora mi era sembrata la tragedia più melensa di Shakespeare, ma cambiai idea. Negli anni seguenti credo di aver rivisto quell’edizione molte volte e di non aver più smesso di commuovermi. Non tanto per la dolorosa storia d’amore di quei due ragazzini ma per quei cinque cadaveri adolescenti che occupano la scena alla fine di tutto: cinque cadaveri e nessun motivo valido per morire, farsi uccidere o, peggio, darsi la morte.
Con gli anni credo che “Romeo e Giulietta” sia lo spettacolo di cui ho visto più versioni, qualcuna davvero indimenticabile. Quando Tonio De Nitto mi ha proposto di adattare alla sua compagnia quel testo, mi è venuta un’idea al limite dell’incoscienza: non accontentarmi di adattare una traduzione esistente, ma ritradurre in rima, così come nell’originale shakespeariano.
All’inizio credevo di morire. I primi versi un’autentica tortura. Ma piano piano la mente si abitua ai nuovi ritmi e le dita corrono sui versi, sulle rime, sui giochi di parola. Più un’intuizione di Tonio: scrivere i dialoghi dei due innamorati non in rima, ma nella prosa più semplice e piana possibile. Una grandissima idea, perché l’amore che ti fulmina non ha bisogno delle regole e delle forme che servono per relazionarsi con il mondo, soprattutto quel mondo ostile e vigliacco nel quale prevalgono violenza e arroganza.
Tutto è gioco, tutto è capriccio, il ritmo e il tono scherzosi, la storia spesso comica, fino a prova contraria, fino al sangue versato, fino a un padre che dà della puttana alla figlia, fino alla morte dei compagni di gioco, fino al rimpianto più feroce e alla colpa. Come nel più classico dei casi da tragedia, la colpa dei padri, che – come scrive Pasolini – deve essere gravissima per meritare una così atroce punizione.
Ed è questo il motivo per cui amo tanto “Romeo e Giulietta”: perché racconta la colpa più grave in assoluto di cui noi essere umani ci macchiamo e subiamo allo stesso tempo, la soppressione dell’infanzia e dell’adolescenza. Una soppressione che tutti piangono, perché tutti siamo stati ragazzi e poi tutto è finito. Lavorare, parola dopo parola, verso dopo verso, al “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare mi sembra il più bel modo per invecchiare senza perdere di vista l’importanza della giovinezza: la propria, quella dei genitori, e degli adulti che un giorno saremo: non c’è niente da fare, ci ricorda Shakespeare, la giovinezza morirà per tutti. A noi trovare un modo, un miracolo, perché non muoia. Allora impariamo le parole d’amore di Romeo e quelle di Giulietta, impariamole a memoria, par coeur, come dicono i francesi, ché è più bello.
Francesco Niccolini
LA RECENSIONE
Se ci limitassimo a dire che il R & G per la regia di Tonio De Nitto è soltanto “pop” non faremmo un buon servizio al teatro, al pubblico in delirio come raramente se ne vede, agli occhi che brillano, alle scintillanti intuizioni. Il tutto immerso nella semplicità di origami disegnati come luminarie da festa paesana del Sud, statiche e mutevoli grazie alle milleseicento piccole lucine che accendendosi a ripetizione, con cambi direzionali e policromatici, rendevano atmosfere senza tempo in un clima psichedelico, trasognante da processione, trance da Duomo. (…) E quindi se il testo, a tratti, a volte, in molte versioni didascaliche risultante polveroso, riprende la sua forza espressiva e colorata e alta e frizzante, se le scene hanno quel quid che ci porta dentro l’odio ancestrale di certi paesi, astio che comunque si mescola ai segni della croce in una marmellata tra devozione alla Madonna e sangue versato sui gradini della chiesa, se l’immaginario è contemporaneo di clan e capetti di luoghi dimenticati da Dio, allora, allora sì che si può, con titolo e doverosamente, parlare di riscrittura felice e non di inutile riproposizione. (…) I sette attori (non come quelli pirandelliani, questi un autore l’hanno trovato), liberi e ben diretti da De Nitto, hanno un rapporto diretto con la platea, dalle corse in sala ai panni stesi tra la balconata, agli occhi negli occhi: il loro è un racconto a qualcuno che non era presente, un passaggio di consegne perché la storia-mito dei due dolci ragazzi sconfitti dall’odio familiare e dai cognomi che portavano non vada persa ma vaghi ancora di bocca in bocca, monito e insegnamento. E a questi ingredienti mantecati come inno alla gioia, della vita e del teatro, del puzzle macerare il tutto in una colonna sonora burrosa che spazia da una tarantella alla Carrà (ormai come farne senza?) fino alla “Creep” dei Radiohead esplodendo con Antony and the Johnsons e straziandoci con “Il carrozzone” di Renato Zero. Viene in mente il “Mercuzio non vuole morire” di Armando Punzo, alcuni stralci delle prime prove di Roberta Torre, qualche lampo alla Emma Dante, nessun parallelo con il lavoro di Federico Tiezzi sullo stesso testo.
Tommaso Chimenti