NOVANTADUE
Falcone e Borsellino, 20 anni dopo
di Claudio Fava
con Filippo Dini, Giovanni Moschella e Pierluigi Corallo
allestimento e regia di Marcello Cotugno
produzione Bam teatro
in collaborazione con XXXVII Cantiere internazionale d’arte di Montepulciano e Festival L’opera Galleggiante
In scena nella giornata in memoria della strage di Capaci.
Informazioni
Nel 1992, mentre si segnava la fine della cosiddetta Prima Repubblica con i processi “mediatici” di Tangentopoli che coinvolsero principalmente i tribunali milanesi, i due magistrati simbolo della lotta alla mafia, i cervelli del primo grande processo a Cosa Nostra, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, saltarono in aria con chili e chili di tritolo. Da allora, si cerca affannosamente una verità.
C’è una curiosa regola di rinnovamento alla ciclicità della storia della Repubblica italiana che il costituzionalista Michele Ainis, chiama la “sindrome del ventennio”. Ne sembriamo come patologicamente affetti.
Non a caso, più di vent’anni dopo eccoci a raccontare fuori dalla cronaca, lontano dalla commiserazione, la forza di quegli uomini, la loro umanità, il rigore dei pensieri, il loro senso profondo dello Stato e soprattutto, la solitudine a cui furono condannati.
Eccoci a parlare di nuovo di Falcone e Borsellino e quasi senza volerlo, ad allargare la riflessione nel momento in cui, venti anni dopo quelle stragi, si riapre prepotentemente il filone di inchiesta della trattativa tra Stato e Mafia, che non sembra risparmiare neppure le più alte cariche dello Stato.
Sullo sfondo, la nostra Italia che in vent’anni, a ben guardare, considerando proiezioni e strane simmetrie, sembra uguale ad allora…
Il nostro racconto comincia in Sardegna, nell’estate 1985, all’Asinara, nel carcere di massima sicurezza dove Falcone e Borsellino vennero spediti nottetempo per ordine del giudice Caponnetto, dopo l’omicidio del capo della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, proprio per completare l’istruttoria del Maxi Processo.
Si procede per fatti salienti, noti e meno noti, come per le stazioni di una via crucis.
Il testo punta ad una sensibilizzazione necessaria: troppo spesso, come già ricordava Borsellino, si crede che una mafia che non spara è una mafia che non colpisce più.
NOTE DELL’AUTORE
Una scrivania sulla scena nuda.
Due uomini che lavorano, chini sui loro fogli. Scrivono con la fretta di chi sa che quella è la loro ultima notte prima di lasciare l’isola nella quale si sono ritirati a preparare l’atto d’accusa per il primo grande processo alla mafia. Sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e il carcere dell’Asinara è il loro esilio volontario – lontano da sguardi, domande, minacce – per concludere il lavoro di una vita. Ma è anche una notte di verità necessarie tra due uomini, due amici che condividono lo stesso desiderio di vita e l’identico presagio di morte. Una notte in cui dirsi le cose a lungo taciute, confessarsi rabbie, allegrie, paure. Anche la paura di morire, perché no?, sapendo che fuori da quella prigione, da quell’isola, li aspetta una guerra che non hanno cercato ma che ormai li reclama. La scena si dilata, il nostro sguardo precipita verso altri tempi, incontra una ad una le cose che sono poi accadute. Ma stavolta senza più accontentarsi della verità facile che ci hanno servito: da una parte gli eroi, i servitori dello Stato, il bene; dall’altra gli assassini, i macellai della mafia, il male. E in mezzo, niente.
Dopo vent’anni quella terra di mezzo va riempita con il racconto dei peccati innominabili: le omissioni, le complicità, i silenzi, le viltà… Adesso sappiamo che tra quei due giudici ammazzati e la follia omicida di Cosa Nostra si sono mossi pezzi delle istituzioni, uomini dei servizi, ufficiali dei corpi speciali, ministri guardasigilli, funzionari pubblici e depistatori di professione.
Adesso sappiamo che Falcone e Borsellino dovevano morire non solo per volontà dei Corleonesi ma anche per scelta di una parte di quello Stato che i due magistrati credevano di rappresentare e di tutelare.
In un tribunale la storia si scrive con i processi.
A teatro, cercando le parole per dire e per immaginare. Partendo proprio da loro, Falcone e Borsellino: non più ingessati nel ricordo ma di nuovo tra noi, in un tempo presente.
Condannati a vivere, i due giudici ripensano alle cose accadute, ascoltano le vite degli altri, osservano questi vent’anni di cose torbide, di frasi lasciate a metà, di trattative e di baratti…
E intanto mettono in scena la loro allegria e la loro agonia, la voglia di vivere e l’attesa della fine.
Con loro, sul palcoscenico, non ci sarà un boss di Cosa Nostra ma un mafioso qualsiasi, uno di quelli che erano chiamati a obbedire e a tacere. Al nostro personaggio era toccato in sorte il compito di ammazzare uno dei due giudici: non lo ha fatto e a quella sua vittima risparmiata vuole raccontare che lui non è pentito ma solo deluso. O forse semplicemente annoiato dalle nostre liturgie, dalle messe cantate, dalle mezze verità di un paese che dimentica i vivi per celebrare solo i morti. C’è poi un giudice, il consigliere istruttore, un collega di Falcone e Borsellino.
Uno di quelli chiamati a mettersi di traverso in nome di un sentimento opaco e prudente della giustizia.
Quel Consigliere è il segno di uno Stato malato, di una nazione civile che ha perduto se stessa e per la quale Borsellino e Falcone, così singolari nella loro normalità , sono solo un’anomalia, un errore di stampa. Sa di mentire, il consigliere, ma pensa che sia giusto farlo perché il potere, quello vero, si misura anche con la capacità di simulare, di trovare intese con chiunque, di mettersi al di sopra di ogni morale. Ecco perché il nostro giudice è un personaggio che non si pente, che non nega ma al contrario rivendica, argomenta, spiega, giustifica. E prova a convincere anche loro, Falcone e Borsellino, che sarebbe meglio se mettessero da parte questa pretesa ottusa di sapere come sono andate veramente le cose, chi ha fatto cosa e perché.
Attorno si percepisce un paese pigro e perbene, educato a recitare ave marie in memoria dei propri eroi. E adesso che vengono allo scoperto le storie marce di quell’estate del ‘Novantadue, il Paese non ci sta: siamo cresciuti pensando che tutte le cose accadute fossero dolorose ma limpide, semplici come in un film.
E che a noi toccava solo battere le mani alla fine della proiezione. Così non era. In fondo non sono più Falcone né Borsellino l’architrave di questo racconto teatrale. Anche loro sono un pretesto per misurarci con il vero oggetto del conflitto: che è la verità.
O meglio, le molte idee di verità. Da una parte la verità nuda, assoluta, senza aggettivi; dall’altra una verità ufficiale, parziale, obbediente …Quale delle due prevarrà alla fine? E chi recita davvero: il morto che fa l’eroe, l’antimafioso che ne piange la memoria o l’uomo di potere che rivendica il diritto a mentire? Chi di loro finge davvero?
Questo, ovviamente, lo deciderà lo spettatore.
Claudio Fava
NOTE DI REGIA
Novantadue è una moderna tragedia classica. Suo malgrado. La modernità è nei fatti, nel titolo che scandisce la nostra ridottissima distanza (solo temporale, perché nei fatti c’è già un universo a separarci) dalla storia che mette in scena. La sua classicità è nella dimensione epica, consapevolmente eroica, dei suoi protagonisti: sarebbero piaciuti a Sofocle, Falcone e Borsellino.
Lo si potrebbe peraltro credere un testo di denuncia: Novantadue – o meglio, il 1992 – è stato un anno orribile della nostra storia, iniziato peraltro con la pronuncia da parte della Cassazione della sentenza storica e definitiva di condanna che chiuse di fatto il Maxi-processo. Invece, Novantadue è sorprendentemente il racconto di una doppia solitudine.
Che si staglia sullo sfondo di una fase epocale della nostra storia repubblicana, ma sempre solitudine umana resta. E’ il racconto di due uomini abbandonati da quello Stato che hanno giurato di servire. Due volti che in Novantadue tornano persone, dopo essere stati trasformati in icone. Oggi li troviamo fotografati e riprodotti dappertutto, dalle aule di tribunali agli interni delle macellerie.
Fino al paradosso: una loro foto compare perfino in quel circolo Arci di Paderno Duniano dove il 31 ottobre del 2009 i boss delle ‘ndrine si riunirono per eleggere il nuovo capo della ‘ndrangheta lombarda.
Ma erano – e non dobbiamo dimenticarlo – uomini, che lo Stato ha lasciato soli, a consumarsi ed immolarsi in una tragedia assolutamente annunciata.
E fuori dalla retorica celebrativa che si è affannata a piangerne l’eroico sacrificio, di loro non si è forse mai veramente parlato. Della loro umanità, delle loro passioni, delle loro piccole ostinazioni. Delle paure con cui hanno convissuto fino all’ultimo, del rigore dei loro pensieri, di quel senso dello Stato altissimo, non negoziabile, con cui ogni giorno servivano il Paese. Delle loro ore insonni o dei 200 e più caffè consumati (e messi in conto) durante il soggiorno di sicurezza al carcere dell’Asinara, quando erano “reclusamente” intenti a preparare il Maxi-processo.
Una storia del genere non si può raccontare con la retorica. Per questo il nostro spettacolo trova la sua cifra estetica nell’essenzialità, funzionale a uno scavo profondo nell’intimità di due esseri umani.
In un’epoca in cui anche i teatranti sono asserviti alla confezione di un packaging vendibile e accattivante del loro lavoro, la nostra scelta creativa sta invece nel tentativo di comunicare una verità nuda, lontana dal tempo degli accadimenti e dalla cronaca.
A innescare sulla scena il contradditorio narrativo con Falcone e Borsellino, altri due personaggi: un collega magistrato e un mafioso comune. Il primo è il nemico che si cela dentro casa, è la zona grigia, è il terreno della contraddizione, dove crolla ogni rassicurante steccato tra il bene e il male. Il secondo è un mafioso piccolo piccolo, uno che abbassa la testa e esegue gli ordini, ma che si è rifiutato di eseguirne uno: uccidere Paolo Borsellino. (…).